Cannes 2019, A Hidden Life, recensione: l’omelia di Terrence Malick sui paradossi della Fede
Festival di Cannes 2019: la parabola di un obiettore di coscienza che si oppone all’esercito nazista per far affiorare i paradossi della Fede. E in tutto questo, Malick rimane Malick
Gli uomini vogliono trovare la verità per ignorarla.
Nel 1939 Franz Jägerstätter (August Dielh) vive con sua moglie Fani (Valerie Pachner) nella tranquilla St. Radegund, in Austria. In quel periodo gli austriaci abili sono tenuti a rispondere alla chiamata del Reich, senza eccezioni. Franz non è convinto, non tanto dall’idea di andare in Guerra, quanto dal combatterla per Hitler. In quelle distese verdi c’è la sua vita, che non sono solo persone, cose, scorci; quei luoghi sono gli stessi dove Franz ha trovato Dio. Dio è ovunque ma non in tutto: dovunque lo si può trovare, specie nelle cose che rimandano a lui ma non perché lo contengano, per così dire. «Tutto è lecito ma non tutto è utile» c’è scritto, e Franz questo lo sa. Si tratta allora di capire cosa è disposto a fare, fino a che punto è disposto a sopportare pur di essere all’altezza di ciò che crede.
A Hidden Life è un film con cui pressoché chiunque può trovare un punto di contatto, ma di cui non tanti possono a ragion veduta soppesare anche solo in buona parte tutte le sue implicazioni. In superficie, s’accosta con discrezione alla parabola di un uomo che ha creduto profondamente che si debba dire solo ciò che si pensa, senza scorciatoie, senza mezze misure. Altra pasta rispetto al più annacquato Hacksaw Ridge di Mel Gibson, che si ferma alla parte edificante, senza mai davvero affondare nel mistero di un uomo che decide di resistere contro chi da un momento all’altro potrebbe benissimo schiacciarlo.
Quando Franz entra in una piccola chiesa ed ha una discussione con un pittore, quest’ultimo sostiene di essersi sempre tenuto alla larga dal dipingere la sofferenza della Crocifissione, perché, insomma… che ne può sapere uno che, per paura e convenienza, non ha mai anche solo provato a vivere qualcosa del genere? Quando troverà questo coraggio, allora sì che potrà cimentarvisi. A Hidden Life è un’altra tappa di quel percorso interiore sul cui sentiero Malick non ha ancora smesso di camminare. Pochi ma giganteschi i quesiti che lo tormentano, travolgendolo; lo si vede mentre cerca di tramutare in immagini l’incertezza, a tratti lo sconforto per la quasi impossibilità di venire a capo di tali questioni.
Quello che tanti non capiscono, o non vogliono capire, di questo regista, è che i suoi personaggi sono sì veicolo di questa inquietudine esistenziale, ma non si limitano ad essere recipienti vuoti. No, nemmeno a fronte di poche righe di dialogo, di qualche uscita che può suonare quasi un cliché, men che meno alla luce della palese attrattiva che la natura a tutto tondo esercita sul regista texano. È quasi come se per lui fosse impossibile dire ciò che intende dire senza chiarire ogni volta che ne ha modo il fatto che vi sia un equilibrio di fondo che lega l’intero creato, dagli esseri animati a quelli inanimati, l’uomo, le nuvole, il sole, gli animali, gli alberi, le piante. Proseguire imperterriti nell’equivocare il suo sguardo verso tutto ciò vuol dire solo essersi preventivamente tagliati fuori da soli.
Quando Franz torna a casa dalla moglie e dai figli, in attesa che l’esercito lo convochi di nuovo, quelle che in un primo momento erano solo impressioni diventano certezze: il suo intuito non l’aveva tradito, ed anche solo acconsentire a quella Guerra, con quella divisa addosso, equivale a dannarsi l’anima tanto quanto coloro che promuovono attivamente la sua necessità. La felicità per il ritorno muta perciò in dolore per le pressioni esterne: al villaggio hanno registrato il diniego di Franz come un comodo rifiuto per risparmiare a sé stesso l’orrore dei campi di battaglia. E anche quando cominceranno a capire che non si tratta solo di comodità, dunque codardia, le cose non cambiano: sulla famiglia Jägerstätter cade inesorabile la sentenza dell’ambiente, che ha socialmente estromesso l’intera famiglia.
A chi si stesse chiedendo se il paventato ritorno ad una formula un po’ più tradizionale comportasse una sorta di tradimento rispetto agli ultimi vent’anni circa di Malick, non s’inganni: questo Malick è per tanti versi lo stesso di The Tree of Life. Lo è anzitutto per chiarezza d’intenti, quello che forse è un po’ mancato non tanto a To the Wonder e Knight of Cups, comunque più ermetici (specie il secondo), ma soprattutto a Song to Song, che dalla lunga ed estenuante gestazione sembra esserne uscito un po’ smarrito. Ma poi è anche il Malick dell’uso della luce naturale, della macchina a mano con certi movimenti in avanti che si ripetono a mo’ di pattern, certe inquadrature rasenti il terreno, certi controluce, quello che indugia sulla materialità delle cose, siano esse i corpi o certe superfici, oppure più ancora, la loro interazione.
Ancora una volta quella che viene descritta in un suo film è una risalita, l’appropriarsi della dimensione che appartiene a quel personaggio, a dispetto delle prove e degli ostacoli che si trova ad affrontare. Una risalita che da The Tree of Life in poi ha condotto verso l’acquisizione di uno stato di consapevolezza che inizialmente manca, mentre qui viene in pratica messo in scena il paradosso della Croce: come può, infatti, un epilogo così infamante, profondamente ingiusto, che comporta una sconfitta evidente, rivelarsi invece segno di vittoria per eccellenza?
Ad alcuni può far specie dover prendere atto che il Franz d’inizio film è apparentemente molto più felice rispetto a quello che lasciamo alla fine, eppure è quest’ultima versione, per così dire, la più realizzata, compiuta. Dunque felice, ma davvero. Il film si chiude su una citazione di Eliot, che ci ricorda quanto spesso nel corso della Storia si siano rivelati fondamentali coloro che conducevano «una vita nascosta», ossia che nessuno o quasi ha conosciuto o di cui si conserva il ricordo; eppure, sottolinea Eliot, se il mondo ancora si regge in piedi è grazie a questi sconosciuti.
Malick non rinuncia dunque a quel suo modo di fare le cose, di raccontare: le voci fuori campo che si sovrappongono alla musica e alle immagini, i brani di Beethoven, Bach, Handel o Dvorak, che, come al solito, non servono ad accompagnare quanto si vede ma a completarlo. E poi, cosa non è la scena dell’esecuzione alla fine, se non una una masterclass sia per Poesia che per Tecnica? Quanti sono capaci di girare cose di questo tipo, così? A Hidden Life è un’ode alle piccole cose, quelle più alla portata eppure così difficili da apprezzare il più delle volte. Sollevando questioni tremende, come per esempio quale sia il confine tra egoismo ed altruismo, tra eroismo e follia. O ancora, che cosa farcene del libero arbitrio se questo il più delle volte conduce all’errore dunque alla sofferenza?
Tutte domande a cui Malick non si azzarda nemmeno a rispondere. Anzi, lui, Malick, è lì, nei panni di Franz, quando un alto funzionario delle SS (Bruno Ganz) lo interroga in privato, ed allora l’imputato, capendo l’antifona, chiarisce che lui non si sente migliore, che troppe sono le cose che non sa. D’altronde la vita nascosta è la stessa che proprio il cineasta di Waco conduce da decenni a questa parte, anni in cui, malgrado la ricerca, estenuante o meno, non è ancora approdato a delle risposte anche solo soddisfacenti. La grazia però con cui porta avanti questi discorsi, i modi attraverso cui ci conduce lungo l’ennesimo cammino che dall’oscurità porta verso la luce, restano insuperati, forse insuperabili. Non smette di meravigliare la capacità di Malick nel ricordarci quanto questo mondo, ingiusto per com’è, sia fondamentalmente ancorché inspiegabilmente buono se si ha lo sguardo per accorgersene. Ed una delle vie privilegiate al fine di acquisire tale sguardo non sta nel combattere bensì nel resistere.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”9″ layout=”left”]
A Hidden Life (USA/Germania, 2019) di Terrence Malick. Con Matthias Schoenaerts, August Diehl, Valerie Pachner, Michael Nyqvist, Bruno Ganz, Jürgen Prochnow, Alexander Fehling, Max Mauff, Martin Wuttke, Johannes Krisch, Franz Rogowski, Tobias Moretti, Karl Markovics e Joel Basman. Concorso.